Postfazione/Recensione

image-7215319-Nouveau~Adobe~Photoshop~Elements~Image~copie.jpg

La voce poetica di Ana Maria è arrivata e passata semplice veloce e profumata [di violette e di calce]; stretta [dentro e fuori di sé] e dritta. Tanto rapida diretta e piena di essenze verbali che ne ho digerito parole e presenze, il sentiero e la dolcezza. Riusandole.

            E pure, la sua voce è tessuta di ombra e dalla luna, a volte è diagonale a volte curva, è morbida e anche lenta, malinconicamente disconnessa, come la mente quando si lascia ad una musica propria, o come quando un computer non dialoga più.

E ogni giorno suo ha due notti.

 
            La sorgente di questa voce esonda dall’esilio: da The Condition we Call Exile, come disse Josif Brodskij nel 1987, l’anno in cui ricevette il premio Nobel. Il grande poeta russo, esiliato nel 1972 e morto troppo presto per noi, sosteneva che “l’esilio ti porta da un giorno all’altro là dove normalmente occorrerebbe una vita per arrivare [...] la condizione di uno scrittore in esilio somiglia a quella di un cane o di un uomo catapultato nello spazio dentro una capsula (somiglia di più a quella di un cane, naturalmente, perché nessuno si preoccuperà mai di recuperarti). E la tua capsula è il tuo linguaggio.” (Dall’esilio
, Milano, Adelphi 1988, p. 32).

            La voce dall’esilio di Ana Maria [nell’immenso / estraneo / esilio] ha trovato e poi ha scelto e maneggiato la propria artigianìa poetica nella lingua italiana. I luoghi che l’hanno ristorata nel viaggio continuo della diaspora di chi fugge dalla guerra sono due città e le loro acque: Roma, il Tevere il Mediterraneo e le fontane; Lisbona, il Tago e l’Oceano. Nella foschia della fuga resta Maputo, indietro, a guardare un altro oceano.

            In un varco della parete d’ombra del retrostante mozambicano, come i limoni di Montale, sfolgorano i mandarini piegati dell’infanzia. Mandarini di luce che si spicchiano presto nel silenzio. I mandarini di ora, nel mediterraneo, non hanno il sapore che si è perso.

            Il mistero del giorno con due notti – il mistero che la voce di Ana Maria ha creato facendone “mito personale” e che ci ha lasciato – gira all’intorno dell’ombra e degli agrumi, alle acque e alle viole presso la calce, al mediterraneo e agli oceani. È un giro dalla luna al sole all’altra notte, dal due che passa a traverso dell’uno per potersi ricucire intorno la dualità. Alla fine, quando la voce ha deposto il suo discorso discreto, scopriamo di essere stati adunati tutti, insieme lettore voce notti e giorno, tenuti come in uno scialle. Lungo questo tempo, abbiamo fatto parte del mistero. Poeta è chi crea e aduna. Ana Maria: mistero e ascolti.

 

Armando Gnisci
                                               
Roma, 16 aprile 2002




►▼◄


Dall'esilio... di Ana Maria Andrino Botelho
Recensione di Maria Lenti  da   Punto di Vista n. 37, 2003


"il brivido | di questo suolo | per sempre | non mio || non c'è | un abbraccio ; che oltrepassi | quest'esilio": non è che un esempio del dolore dell'esilio, prosciugato e struggente, illacrimato e pungente, incolpevole e però accaduto, sdipanato nelle poesie di Ana Maria Andrino Botelho. Dalla prima all'ultima linea la constatazione della lontananza forzata, avvenuta, non colmabile o non più colmabile, non lascia spazio tra il sé, anche quello della poesia, e il perduto e l'impossibile del presente: il luogo che ''si legge | nei | libri || e | non | esiste" è luogo del canto e della distanza raccorciata, così come è luogo di un presente e di un futuro in negazione.
Fuggita per costrizione di guerra dal suo Mozambico, l'autrice si rifugia a Lisbona, poi a Roma, poi a Ginevra con le sue radici e le radici di una terra che esiste ora, dopo essere diventata il suo "sogno ossessionato | dolore infantile". Queste radici, tuttavia, "in agonia i di luce", non mettono dimora: un po' come accade alle rose del deseno che ruzzolano a ogni vento in altro spazio serbando in sé, così Cechov nel racconto in Italia conosciuto come Ruzzolacampi, la nostalgia della prima terra.
Allora i versi (che potrebbero ricordare i moduli de L'Allegria ungarettiana, ma che si situano in realtà in una dimensione per nulla astratta e non ermetizzante) diventano gocce distillate, sillabe scandite e parole sincopate per significare un cuore che scruta ogni sua piega dentro il lasciato e l'abbandonato e dentro il viaggio senza ritorno, dentro gli appostamenti, provvisori sempre, di contro a una identità segnata con il sempre.
La poesia di Ana Maria Andrino Botelho si affida e si situa tra i due segmenti del sempre posti l'uno al limite dell'altro. Sono segmenti irriducibili e inconciliabili e però ormai fissati nell'esistenza e nel consapevole scorrere di uno spazio-tempo rintracciabile tra un niente-tutto (il prima) e un tutto-niente (il dopo). Vive - scrive Gualtiero De Santi, in una "Prefazione" che è lettura critica e contestuale insieme -
in una sorta di vertigine supponendo "la dispersione ma anche la ricerca del senso e dell'identità, lo smarrimento e l'anni-chilimento del proprio corpo e della mente, ma anche lo spingersi sino a un limite della soglia di coscienza, dove la memoria distenebrata nei meandri delle sensazioni e delle nostalgie ritrovi infine la profondità delle cose nel loro stato incondito."

Maria Lenti